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“That’s life” di Betty Tezza Danza: un appuntamento con la vita

di Elisabetta Calvi

Immaginate il nero di una scatola teatrale… ed immaginate ora un’apertura, disegnata da un fascio luminoso, che cattura immediatamente l’attenzione dello spettatore portandolo con sé all’interno di un’esperienza che ha, dall’inizio alla fine, tutto il sapore emotivo del titolo e della musica che la accompagna: La Vita, Shirley Bassey.

Il saggio di fine anno della scuola di danza della coreografa vicentina Betty Tezza si è annunciato così, quasi come uno stato d’animo che emerge dal niente espressivo di un nero che ha in sé qualcosa di arcaico, un atto in cui la gestualità si fa richiamo e simbolo di un risveglio collettivo necessario, nel tepore e fermento di una tarda sera di maggio.

Durante lo spettacolo, tra applausi del pubblico che avevano tutto il sapore della gratitudine, i miei pensieri facevano le capriole con la paura di perderli: cercavo anche di comprendere la scelta della coreografa di dividere il saggio in due momenti. Una scelta precisa, mi ha poi spiegato, dovuta alla volontà di valorizzare le bambine più piccole (e piccolissime!) alle ore 18 e successivamente, con lo spettacolo delle ore 21, anche le ragazze più grandi, insieme ad un gruppo amatoriale di adulti. Momenti e scelte artistiche differenti, che hanno incontrato il gusto di un pubblico diverso.

Chi si aspettava di vedere semplicemente ciò che gli allievi della scuola di danza hanno imparato a “fare”, si è trovato davanti ad un gruppo di ballerini di età differenti che, attraverso l’arte della danza, hanno mostrato “ciò che sono” e “dove” sono, in questo frammento di tempo e spazio che tutti abitiamo.

Bellissima l’apertura cinematografica della seconda parte del saggio, oggetto della recensione: una carrellata di inquadrature e pose attraverso le quali i protagonisti della performance entrano in una narrazione nella quale il linguaggio coreografico è quasi una simbiosi tra la danza ed il teatro, in un rapporto di grande vicinanza con la poetica contemporanea di Pina Baush, sempre tesa alla ricerca di nuove soluzioni.

“Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come”, scriveva Nietzsche.

E se questo “perché”, se il senso di una vita che ci sorprende e alle volte ci travolge si declina al plurale, è “l’Amour toujours” ciò che tocca le corde profonde dall’animo umano … è “La vita”, prima coreografia in scena. Da una schiera di ballerine che danzano il colore delle emozioni si stacca una coppia di giovani innamorati, due anime che si cercano e si accarezzano con lo sguardo, trasportate qua e là da un desiderio non invadente.

La sensazione è quella di essere catturati da un flusso vitale che diventa poi quasi una scossa in “Man O To”. Il corpo pulsante di una giovane ballerina domina la scena rendendola quasi materica: un assolo di pose e movimenti stereotipati esprime un’energia rigenerante, quasi primordiale, che ritroviamo anche in altri momenti del saggio, quando i corpi delle danzatrici si incontrano in un dialogo che diventa quasi il sottotesto dell’intero spettacolo, ripresentandosi a tratti come un intermezzo.

Ciò che colpisce è il grande lavoro di ricerca ed approfondimento fatto dalla coreografa con le sue allieve: un percorso di consapevolezza in cui il corpo, le emozioni, il movimento, permettono a chi danza di entrare in contatto con le radici più profonde dell’espressività, con la propria autenticità che è anche nudità dell’anima. E libertà.

Questi percorsi di ricerca di solito portano lontano, anche perché significano impegno, costanza, lentezza, esercizio, cura dei dettagli, amore per il proprio corpo.

Non è poca cosa, in una società che propone continuamente la cultura dell’effimero e l’idea di un corpo da esibire, uno strumento di abbellimento, una cosa.

Attraverso la danza ogni persona ha la possibilità di entrare in contatto con le proprie verità, ed è da quelle che si dovrebbe partire per trovare una sicurezza personale che diventa poi autonomia, senso critico, padronanza di sé, consapevolezza.

Un sentire profondo che è anche un “sentire di gruppo” che promuove il dialogo, la partecipazione, la costruzione di ponti con gli altri come nella coreografia “Dance For Me Wallis” che rappresenta l’assenza di divisione, il bisogno dell’altro, il sostegno reciproco.

L’espressività delle giovani danzatrici e l’eleganza degli allievi del corso amatoriale adulti sono confluite in un finale intenso e di grande impatto emotivo.

In scena anche la coreografa vicentina che, entrata quasi per caso, ha consegnato la sua opera allo spettatore, attraverso l’introduzione attenta e ricercata di una gestualità quotidiana tesa a superare la separazione tra la realtà e la sua rappresentazione, una “rottura della quarta parete” dal sapore pienamente novecentesco.

Dalla scatola nera di un piccolo teatro indipendente, la danza di Betty Tezza si è annunciata così, come uno stato di presenza potenziante.

“Ah… la vita – più bello della vita non c’è niente – e forse tanta gente non lo sa – non lo sa – non lo sa… Ah… la vita – che cosa di più bello esiste al mondo – e non ce ne accorgiamo quasi mai, quasi mai, quasi mai…”

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